Editoriale, inguineMAH!gazine #4 – anno2 (2004)
Incredibile quanta pazienza ci vuole per vedereanche le cose più semplici.
Quanta pazienza ci vuole ora, per me, per scrivere un verso.
Ghiorgos Seferis
Che cosa significa avere un punto di vista? Posizionarsi e guardare con un binocolo sfocato oppure mirare al cuore? La visionarietà si scontra con l’assenza di visione, con la parcellizzazione implosiva di miriadi di immagini del partito unico della visione. Abbandoniamo la ricerca delle radici per un numero per intersecare quali sono i binocoli usati per le visioni a fumetti di autori diversi, per geografia, immaginario, riferimenti. L’implosione esiste, non c’è dubbio: proviamo a fermarla un momento e vedere che cosa l’alimenta. La soggettività del punto di vista seduce, senza dubbio, ci conforta e allo stesso tempo è spaesante.
La domanda, esiste il punto di vista, rimbalzava impazzita negli anni ’80 e ’90. Lyotard aveva insegnato che dalla dissoluzione della trasmissibilità (la “narratività” per la precisione) siamo passati ad una situazione in cui ha spazio solo la comunicazione diffusa dai media. Talmente è stata fritta e rifritta la questione del vedere, che abbiamo avuto bisogno di qualche anno di sana dieta da post-moderno e da teorie del visivo. Un ipnotico torpore ha pervaso le retine di molti, che si sono assuefatti alla comunicazione. Veloce, istantanea, amnestica. Oppure catatonica: visioni che conciliano lo slogan e non la poesia.
Lo sguardo è pericoloso: Orfeo perde la sua Euridice per uno sguardo in più all’indietro, pur avendola appena recuperata dagli inferi. Non si scherza con l’atto di guardare: il rito ce lo impone, eppure nuotiamo in una società che fa del voyeurismo la prassi nella nostra scansione del tempo. Un voyeurismo attonito e ammutolente.
In questo numero il voyeurismo, che quando non crea paralisi nella favella non è una brutta malattia, ha ancora ceduto alla tentazione della parola.
La necessità di coniugare più fortemente fumetto, illustrazione, Web Design e parola era una impellenza inconscia, che si è resa consapevole con la lettura di un articolo di Faeti nell’ultimo numero di Hamelin in un articolo non sintetizzabile perché ha un suo taglio narrativo che inequivocabilmente è legato a quanto sostiene, ma dove in particolare dice che “Il saper vedere si dimostra solo con le parole, perché ogni opera di interpretazione si compie unicamente quando le parole si stringono alle immagini che solo allora esistono, in quanto solo allora sono viste. Il mutismo percettivo vive di sé, non ha collegamenti, non procede verso mete, non conquista”.
Sin dal primo numero abbiamo scelto di accompagnare immagini e parole. Questa risulta una scelta a volte difficile da continuare, perché la riflessione e la ricerca sul visivo non è così scontata come può apparire a prima vista. Eppure, con tutti i rischi connessi, vogliamo costringere le parole a ballare con le immagini, anche se sappiamo che lo sguardo è rischioso e produce metafore. In questo numero le metafore, le similitudini, le diverse intonazioni della medesima figura a volte potrebbero averci preso la mano. Conquistare la meta non è semplice, perché il discorso non è meno pericoloso dello sguardo. Anzi: se il mutismo sulla figura crea inanità, la parola può incantare e irretire. Il rischio di avvolgerci in lettere e sintassi esiste, ne siamo consapevoli. Ma meglio morire parlando, che perire guardando.