L'ultimo Gasp, inguineMAH!gazine #2 – anno1 (2003)
Non esiste una cosa come il popolo palestinese… Non è come se noi fossimo
venuti e li avessimo cacciati e preso il loro paese. Essi non esistono.
Golda Meir (Primo ministro israeliano 1969-74),
dichiarazione al The Sunday Times, 15 giugno 1969.
Come possiamo restituire i territori occupati? Non c’è nessuno a cui restituirli.
Golda Meir, 8 marzo 1969
Kufia è nato nel 1988 come progetto a sostegno di un progetto di solidarietà. Erano tempi diversi per la questione palestinese. Si parlava un’altra lingua: nel senso che, ciò che è avvenuto dopo, ha cambiato la sintassi del discorso politico tout court e delle dinamiche in atto. La richiesta era abbastanza banale, ma complessa e rischiosa anche al tempo: si chiese ad una serie di disegnatori importanti di realizzare una illustrazione per farne una mostra e un port-folio che servisse come strumento di raccolta fondi per la Palestina. Ci furono dinieghi ed entusiastiche adesioni, come sempre avviene in queste circostanze. La peculiarità di kufia non fu però soltanto quella di radunare un numero cospicuo di autori italiani ed esteri su un progetto che per sconfiggere il silenzio usava le figure, ma quello di sopravvivere e continuare con tenacia questo lavoro. Questa è stata senza dubbio la riprova inconfutabile che se si vuole lavorare perché il silenzio esaurisca se stesso, lo si deve fare con costanza, anche se sottovoce.
Kufia presentò i lavori raccolti in oltre 70 città italiane e anche a Gerusalemme e nei Territori. Le tavole originali della prima edizione furono trafugate: non si è mai saputo chi fosse il mandante del gesto, ma la cosa non stupisce. Il furto avvenne con modalità organizzate e non improvvisate.
Nel 2002 gli organizzatori hanno deciso di ricominciare: di nuovo hanno contattato autori, alcuni già presenti nella prima raccolta, altri nuovi, anche perché qualcuno con Pazienza è venuto a mancare. Credo che la necessità di rinnovare la raccolta non sia stata solo dovuta allo scoppio della Seconda Intifada, ma anche al fatto che il conflitto e la sua rappresentazione sono cambiate. Ovvero, da un certo punto di vista la situazione rimane incrollabilmente identica, ma solo ad uno sguardo indifferenziato. Per prima è mutata la società palestinese. È mutato il clima politico interno di Israele. Siamo mutati noi.
Quest’ultimo cambiamento mi sembra quello più cruciale: il nostro mutamento. Perché kufia, a prescindere dallo scopo per cui è stata realizzata, è comunque una mostra di illustrazioni e disegni che risulta eccezionale perché rappresenta il nostro punto di vista, il nostro sguardo sull’altro. È vero che ci sono anche alcuni disegnatori israeliani e palestinesi, ma il gruppo più significativo, sia come numero che come rilevanza artistica, è quello europeo. Kufia è una piazza di visioni che colleziona rappresentazioni su un conflitto che ha una particolare rilevanza simbolica, ed in questo senso stimola la produzione di figure. Se lo sguardo muta, deve mutare anche la rappresentazione.
Il primo cambiamento è avvenuto nello strumento comunicativo di cui kufia si è dotato. Difatti ora è anche in rete, grazie alla collaborazione di inguine.net, e, si sa, il medium è significato. Il Blogger di kufia in poco tempo è stato visitato da migliaia di visitatori e sono state inserite quasi 50 immagini. Una ulteriore riprova che il simbolico che si accumula dietro a questa storia può trovare un valido strumento nell’immediata e non mediata pubblicazione della rete.
Il secondo cambiamento, meno evidente, ma più significativo, è quello dell’immaginario che pervade la seconda raccolta di illustrazioni. Se nella prima edizione le immagini erano, a prescindere dalla tecnica utilizzata, molto venate da un simbolismo orientalista, nel senso che a questa parola dà Said, ovvero di “orientale così come io occidentale me lo raffiguro”, e se mancava un approccio ironico o disincantato, ma prevaleva un’estetica che mirava alla commozione e alla angoscia, nella seconda edizione i toni sono in parte mutati.
Innanzitutto compare una vena ironica, di smontaggio di alcuni luoghi comuni, di decomposizione del senso invalso: ad esempio nell’illustrazione di Zarate del francobollo della Palestina (vuoto) o in quella di Giacon del ragazzino che legge Spiderman, mentre dietro di lui avanza un carro armato (la didascalia recita: supereroi con superproblemi). Segno che qualcosa è cambiato. Se il ragazzino palestinese non è più un ostaggio visivo, nel senso che non è semplicemente un topos dell’immaginario utilizzato a favore e contro tutte le guerre, ma diventa “persona”, personaggio di un racconto dove fa cose comuni come leggere un fumetto, allora qualcosa si è mosso nel nostro modo di rappresentare l’altro. Il disegno di Giacon mi ha ricordato un’altra illustrazione dove questo aspetto compare, pubblicata su World War 3 negli Stati Uniti, dove però il ragazzino gioca alla Play Station. In tutti e due i casi ho pensato alla richiesta che i palestinesi comuni più spesso fanno negli incontri: guardateci, non siamo tutti terroristi. Anche noi piangiamo i nostri figli. Guardateci, vorremmo una vita con le accidentalità del normale scorrere del tempo.
Kufia è un inconsapevole testimone, e forse promotore, di questo mutamento: in questo senso questo progetto non solo è stato prezioso per raccogliere fondi, diffondere idee e stimolare una riflessione su quanto sta accadendo in Israele e Palestina, ma è preziosissimo perché ha stimolato e permesso al nostro punto di vista di cambiare la propria interpretazione. Rappresentare se stessi è dura, farlo con l’altro lo è ancora di più. Alla fine, come diceva Borges, “un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Per anni e anni popola lo spazio con immagini di province, di regni, di montagne…E poco prima di morire, scopre che questo paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto”. In questo senso dentro kufia ci specchiamo noi stessi.