Intervista a Danijel Zezelj, inguineMAH!gazine #6 – anno3 (2005)
Caro Danijel, ultimamente in Italia ti vediamo perlopiù in occasione di performance e seminari. Qual è il tuo rapporto con l’italia in questo periodo? Sei in contatto con qualcuno per pubblicare?
In Italia, sto ancora collaborando con Grifo Edizioni. Hanno infatti pubblicato la mia nuova graphic novel Small Hands ed anche una seconda edizione de Il Ritmo del Cuore, esaurita per un periodo.
Per alcuni dei miei lavori recenti, ho provato a contattare diversi editori italiani, senza però ricevere alcuna risposta. Stampare un libro o una rivista, non è più una cosa difficile e costosa, così praticamente chiunque può farlo da solo. Il problema è come distribuire e come raggiungere il pubblico (probabilmente è una cosa che conosci dalla tua esperienza con Inguine). Se io fossi in grado di risolvere questo problema, mi stamperei i libri da solo.
Le performance multimediali sono state per me una strada per cambiare la tecnica di lavoro ed anche una metodologia per collegare arti visive alla musica (tutte le performance sono state realizzate in collaborazione con Jessica Lurie, compositrice e sassofonista). Oltretutto, le performance sono un metodo per raggiungere il pubblico direttamente, presentare le mie graphic novel ed anche la musica e i CD di Jessica. È un lavoro molto impegnativo, con un grande coinvolgimento fisico ed emotivo, ed ancora non sono sicuro se abbia un senso.
Qual è stata la tua esperienza italiana? Puoi essere onesto e cattivo!
Sono arrivato in Italia alla fine del 1991, dopo avere lasciato l’Ex Yugoslavia e passato sei mesi a Londra. Visto che mi avevano buttato fuori dall’Inghilterra (polizia dell’immigrazione), l’Italia era l’unico paese nel quale speravo di potere rimanere a lavorare. In questo senso, L’Italia ha salvato la mia vita. La gente di Montepulciano, che a malapena conoscevo, mi ha accettato e aiutato. Ho lasciato un pezzo del mio cuore in quel posto e devo molto a quelle persone.
Penso tra l’altro che l’Italia sia un posto speciale. C’è un commistione e uno scontro di molte diverse influenze, buone e cattive, ma c’ancora un forte senso comune, una gioia di vivere, che mira sempre al lato solare delle cose. C’è una lotta continua tra differenti forze, idée, tendenze (politiche, culturali, sociali…), ma fintanto che c’è lotta c’è speranza. Capissco che è una visione molto soggettiva, ma è il modo in cui io la vedo, probabilmente anche perché sono outsider.
Ora, vivi nell’impero “del male”…cosa significa essere un disegnatore europeo, croato, ex yugoslavo negli USA?
Significa essere un immigrato, ovvero non sentirsi mai a casa, non sentirsi mai a proprio agio, rilassato e tranquillo. Significa che non puoi mai divenire una parte di un gruppo, ma sei sempre un outsider e devi continuare a vivere, pensare ed agire come un individuo ai margini. Ma questo sforzo continuo ti mantiene vivo e vigile, ed è un elemento che considero positivo. Perché da solo puoi essere buono, mentre in gruppo puoi divenire un animale. Dunque, la mia posizione in questo “impero del male” è la medesima che avrei in altri luoghi – vivere giorno per giorno, cercando di sopravvivere.
Hai ripetuto due volte che ti consideri un outsider. Cosa significa per te questo termine esattamente, non avere padroni, non avere maestri, oppure…? C’è qualcuno con il quale ti senti di avere una “parentela” in questo senso? In fondo gli USA sono il paese degli immigrati per natura…Non credo che sia semplicemente perché tu provieni da un altro paese a farti sentire così.
Con il termine outsider intendo qualcuno “che non appartiene”. Significa questo – cercare di rimanere fuori da relazioni che sottintendano un capo e un seguace, un ordinatore e un ordinato, uno che sta sopra e uno sotto. È difficile ricavarsi uno spazio simile, perché tutto il sistema si basa sul principio della competizione, sull’essere o uno che controlla o uno che è controllato. Questo è quello che ti insegnano in famiglia, a scuola, all’ufficio, in TV…Sto cercando di evitare questo sistema il più possibile (spesso è impossibile) – e questo automaticamente mi pone nella posizione di outsider. Credo nell’esistenza non basata sulla dominazione e il controllo. L’unico spazio in cui questa esistenza è possibile è lo spazio della relazione personale basata sull’amore e il rispetto, e lo spazio della creatività. Questi sono la mia patria, i miei territori di libertà.
Puoi dire che gli USA sono stati fondati dagli immigrati e sull’idea del mondo libero indipendente. Ma visto che i valori materiali hanno sorpassato ogni altro valore, l’idea di libertà si è trasformata nell’idea di proprietà. Così eccoci qui.
Qual è la tua identità? È una domanda che per te ha un senso?
Parzialmente ho già risposto a questa domanda in precedenza. L’identità non può essere definita da nulla, ma solo dal tuo cuore, dalla tua testa e dal tuo corpo. Può sembrare astratto, ma vivo questa situazione molto concretamente, in modo pratico tutti i giorni, non sempre come scelta, ma sempre come una necessità.
Mi chiedo se ci sia una relazione tra questa tua strenua difesa dell’identità personale, individuale, e il fatto di provenire da uno stato che non esiste più e che ha vissuto uno scontro feroce proprio sull’identità comunitaria.
Probabilmente. Visto che non esiste nessun luogo fisico che io posso chiamare “la mia patria”. Sono quasi ossessionato dall’idea di difendere e preservare lo stato indipendente di me stesso. Cosa che a volta sembra ridicola persino a me. Ma penso che il concetto di “identità comunitaria” sia un mito pericoloso.
Parliamo ora più nello specifico del tuo lavoro. Mi riassumeresti, dal tuo punto di vista, il tuo stile con tre aggettivi?
Forse ne userei solo due, bianco e nero. Inoltre, penso che lo stile sia un elemento superficiale e irrilevante. Lo stile è solo un strumento di comunicazione, una tecnica, esso dovrebbe sottostare all’idea o all’emozione che si vuole esprimere.
Il tuo segno sembra molto xilografico. Hai mai realizzato xilografie o incisioni? Se tu non disegnassi, che cosa vorresti fare?
Ne feci alcune durante gli studi all’Accademia di Belle Arti a Zagabria. Tra l’altro, ho studiato pittura e il mio approccio e la mia visione provengono da un esercizio sulla pittura classica, tradizionale. Soprattutto dallo studio della pittura barocca e del chiaro/scuro. Un’altra influenza importante sono stati i film muti in b/n – dell’avanguardia russa e dell’espressionismo tedesco. La qualità visiva di questi lavori è rimasta insuperabile.
Ora vivi tra gli States e Zagabria, dove hai fondato Petikat. Ci racconti qualcosa di questo progetto?
Petikat è uno studio grafico e una casa editrice che è stata fondata da me e da due miei amici, Stanislav Habjan e Boris Greiner. Abbiamo cercato di operare come un laboratorio autosufficiente dove ogni parte del processo, dal creativo all’editoriale, fosse sotto il nostro controllo.
Boris e Stanislav sono anche scrittori, e il nostro obiettivo primario è di pubblicare il nostro lavoro (eventualmente anche quello di altri artisti e scrittori). Curando anche la parte grafica, cerchiamo di coprire i costi di produzione dell’editoria e di non dipendere dalle vendite. Cosa che sarebbe ridicola peraltro, in un paese con solo 4 milioni di abitanti che leggono e parlano croato.
Cosa succede ora in Croazia? Intendo ovviamente nel mondo del disegno, ma anche nella vita di tutti i giorni.
La Croazia, in particolare Zagabria, ha una forte tradizione nel disegno e nell’animazione. La Zagreb Film è stato uno degli studios più rispettati e creativi nel mondo durante gli anni ’60 e ’70. In qualche modo, esperienze importanti nel fumetto sono emerse anche durante gli anni ’80, nel periodo di Frigidaire in Italia, di Metal Hurlant in Francia. Anche adesso sembra che un mucchio di disegnatori di talento croati lavorino per DC Comics e Marvel. Il lavoro è buono, ma non trovo niente di interessante o stimolante, in quanto è un tipo di fumetti che non leggo o seguo. Al momento non c’è nessuna rivista o pubblicazione in Croazia che presenti fumetti in forma artistica con ampia possibilità di espressione e comunicazione – o fumetti che siano espressione della scena culturale, politica o sociale (nel modo in cui viene fatto da Stripburger, o Strapazine, Inguine, WW3…ed altre pubblicazioni simili).
Tutti abbiamo progetti nel cassetto, cioè idee e progetti in attesa di essere realizzati, possibili o futuribili. Quali sono i tuoi?
In questi giorni sto cercando di finire un’altra graphic novel, il cui titolo provvisorio è Stray Dogs. Questa storia ha molto a che vedere con il concetto “di non appartenenza” – come condizione, necessità, imposizione, scelta. Sto lavorando a questo progetto da tempo e il Gardner Museum di Boston ne valuterà la pubblicazione. Vedremo se andrà in porto. Sarebbe un interessante connessione tra la graphic novel e un’istituzione museale molto seria e tradizionale.
Un altro progetto è una sceneggiatura sulla quale lavorerò insieme al regista e cameraman Mario Amura.
Qualcuno sostiene che tu e Zograf siate come Bregovic e Kusturica. Uno è andato all’estero, l’altro è restato. Che cosa ne pensi?
Questo è un confronto veramente triste. Prima di tutto, ho poco rispetto del lavoro di Kusturica e non ne nutro nessuno per quello di Bregovic. Invece rispetto molto Zograf e il suo lavoro. In secondo luogo, io e Zograf abbiamo esperienze e background molto differenti in relazione alla vita e alla guerra in Ex-Yugoslavia. Confrontarci solo perché proveniamo dalla stesso stato scomparso è superficiale. Rifiuto qualsiasi classificazione per deduzione e generalizzazione, usata spesso dai media, dai politici, ecc. ….che niente hanno a che vedere con la vita vera. Le ragioni per cui Zograf è rimasto in un luogo e il mio andare via sono personali e soggettive e spiegate al meglio dal nostro lavoro. E questo è quello che conta.