Pubblicato su, inguineMAH!gazine # – (2005) (Catalogo di Komikazen Festival del fumetto di realtà)
Gillo Pontecorvo1 era sicuramente attratto dal neorealismo, ma ne applicò la poetica inventando una nuovo codice. Ne La battaglia di Algeri, girato nel 1966, egli effettua una selezione dei fatti esplicitamente finalizzata ad un obiettivo paradigmatico. L’intento era di superare l’orizzonte algerino e rendere questo film parte di un discorso più ampio sulla liberazione.
L’Algeria diventa indipendente nel 1962, dopo 8 anni di sanguinose lotte condotte dal Fronte di Liberazione Nazionale: la sinistra francese si divide e il dibattito sull’Algeria incendia le discussioni non solo dei salotti. In Italia invece la sinistra è chiaramente dalla parte del FLN, che gode peraltro del favore dell’ENI di Enrico Mattei.
La realizzazione del film ha una storia particolare, difficile da immaginare oggi: Yacef Saadi, comandante militare del FLN per la zona autonoma di Algeri durante la lotta, si presentò in Italia per cercare un regista interessato a girare un film sulla lotta di liberazione degli algerini. Aveva una rosa di tre nomi a cui rivolgersi (Visconti, Rosi e Pontecorvo): quest’ultimo accettò, a patto di potere riscrivere il soggetto propostogli da Saadi.
L’angolo visuale di Pontecorvo e Solinas si nutre di diversi condimenti: della teorizzazione di Franz Fanon sul terzomondismo, di un anno di incontri, ricerche, interviste in Algeria, e della precisa volontà di fare un’opera che travalicasse i confini storici della storia del paese nordafricano. Non è quindi un caso la scelta della battaglia di Algeri, un episodio che ha apparentemente un finale di sconfitta. L’attenzione della sceneggiatura si sofferma quindi sul senso di apparente caduta e sommersione della ribellione: si mette in scena il fallimento, con l’esplosione che chiude il cerchio del flash back, dei quattro partigiani (Hassiba Ben Bouali, il giovane Mahmoud, il tredicenne Omar e Ali La Pointe, uno dei capi sopravvissuti del FLN). Il film si conclude con la riemersione dopo tre anni delle imponenti dimostrazioni popolari dove compaiono nuovamente le bandiere dell’FLN. Il 2 giugno del ’62 nasce la nazione algerina.
La produzione del girato vero e proprio coinvolge la storia del cinema algerino: la troupe italiana è formata da nove italiani, tutti gli altri sono algerini senza esperienza. In un certo senso, l’esperienza di Pontecorvo contribuisce a creare un primo nucleo di tecnici professionisti. Ci sono altri particolari significativi, che fanno ben capire come questo film si intrecci solidamente con la storia, ne divenga una parte e non solo una registrazione. Gli attori sono tutti non professionisti, fatta eccezione per Jean Martin: oltre a Saadi, che interpreta se stesso, molti altri avevano preso parte alla battaglia. Gli europei sono cooperanti, ma anche turisti e giornalisti in quel Paese. Molti sono attori sono analfabeti e non possono leggere la parte, così si usano suggeritori di scena.
L’impianto visivo è dettato da una interpretazione della “dittatura della verità”: la scelta del bianco e nero è dovuta alla necessità di avvicinare le immagini alle foto dei settimanali e televisive del tempo. Lo stesso uso del teleobiettivo è dettato dall’abitudine degli operatori della TV di riprendere da una certa distanza gli avvenimenti: il senso di realtà è quindi recuperato dalla sua distorsione. Per raggiungere la grana documentaristica, viene utilizzato un espediente sperimentato per Kapò: si realizza un nuovo negativo dal positivo e gli operatori controtipano una o più volte per ottenere la giusta caratura. Il montaggio è volto a dare un senso di rubato per avvicinare il testo al documentario, rinunciando anche a effetti che potrebbero avere un alone troppo cinematografico.
Gli obiettivi del regista sono risultati pienamente raggiunti, anche a livello politico. Alla sua proiezione a Venezia, dove vincerà il Leone d’oro, la delegazione francese non assisterà alla proiezione: il film sarà vietato in Francia fino al 1971. Ma anche in quell’anno sarà praticamente impossibile vederlo in sala: gli ex combattenti minacciano le sale cinematografiche, vengono messe addirittura tre bombe in altrettanti cinema. Al contrario, ottiene un successo incredibile negli USA, dove conquista i cuori delle minoranze radicali, ma anche della critica. Le Pantere Nere utilizzano il film come modello per utilizzare le stesse tattiche contro i poliziotti e quindi i militanti sono tenuti a vederlo.
Abbiamo deciso di utilizzare il titolo di questo film per tutte le motivazioni che si possono intuire dalla sua storia: in un epoca di musealizzazione e di compleanni della resistenza italiana, ci sembrava interessante vagliare quali narrazioni e quale immaginario potevano scaturire da un titolo che appartiene per molti versi ad un’altra epoca. I risultati sono stati molto interessanti: la qualità dei lavori è stati particolarmente alta e non ci sono giunte in generale storie furbette o scontate. Abbiamo scelto il lavoro di Gabriele Gamberini perché ci ha colpiti il suo stile da fumetto anni cinquanta che racconta una storia che potrebbe tradursi in political fiction, ma che in poche pagine coglie un aspetto importante del ribellismo: il dilemma “aderire o meno” e con quali strumenti, che ci sembra molto attuale. In più, il nostro innato tabagismo ce l’ha fatta amare. Vogliamo inoltre segnalare il lavoro di Rocco Lombardi, che è sicuramente tra i migliori per qualità grafica, attenzione storica e puntualità narrativa: ci riserviamo di pubblicarlo in un altro numero della rivista per motivi di spazio. Grazie anche a Sandro Staffa, che riesce sempre a farci ridere di noi stessi.
Per le notizia riportate, vedi M. Ghirelli, Pontecorvo, La Nuova Italia, Firenze 1978.