pubblicato in Hamelin 23, 25 settembre 2009
Ogni periferia ha un centro di cui essa costituisce la costola, e allo stesso tempo la periferia non ha un suo centro. Il villaggio invece ha un suo cuore, è una comunità. Il villaggio Anic, il contesto nel quale è ambientato il romanzo a fumetti di Davide Reviati, fa parte di quelle realtà urbane ibride, non più villaggio che nasce in un contesto rurale o costiero, ma neanche periferia di una città.
Il villaggio operaio dell’Anic a Ravenna viene realizzato per volontà di Enrico Mattei alla fine degli anni ’50, in quella strana stagione italiana dell’industrialismo assistenziale statale. Il primo progetto, detto il Piano Unitario, prevedeva un’estensione del Villaggio su 90 ettari, un numero cospicuo di alloggi, otto asili, due scuole elementari, una scuola media, un ambulatorio, otto mercati-cooperative, due centrali termiche, tre auto rimesse, una zona sportiva provvista di un campo sportivo, un campo da pallacanestro, una piscina, quattro campi da tennis ed una zona centrale composta da un teatro, un grande magazzino, un centro sociale pensato come sala riunioni, sala feste e cinema, un complesso parrocchiale, formato dalla chiesa con il battistero e la canonica ed infine un «palazzo civico»1. La morte di Mattei frenò questo progetto di ampio respiro e si passò ad un investimento minore, con meno servizi e soprattutto non collegato alla città.
Questa zona di frontiera, ubicata con un corridoio di tolleranza tra la città sonnolenta e la linea costiera nord, rimarrà un aspetto peculiare di questa parte di Ravenna fino agli inizi degli anni ’90. Per questo il villaggio assunse le caratteristiche di un’entità autonoma con regole proprie (anche edilizie: molta parte degli edifici sono stati condonati in seguito dal Comune…). Il progetto finale effettivamente realizzato e terminato nel 1964 aveva diminuito di circa 80 ettari l’estensione prevista per l’investimento e come servizi furono costruiti un asilo, una scuola elementare, uno spaccio ed una baracca che faceva da chiesa, mentre il centro sociale del Piano Unitario del 1958 si limitò ad alcune stanze al pian terreno di un edificio. La chiesa sarà costruita alla fine degli anni Sessanta e le infrastrutture sportive negli anni Settanta.
Esso ha ora cambiato nome, non volendo essere da meno di Leningrado che è diventata San Pietroburgo, anche il Villaggio ha optato per un’identità che ricorre all’annuario sacro, ovvero quartiere San Giuseppe, un santo falegname e vicino agli operai. Ora sono nate villette a schiera colore confetto, abbinate ad altre con colonnati finto dorici in odore di trash periferico piccolo borghese. Un bel parco lambisce il confine del nuovo/vecchio quartiere, a cui è stata data anche una piazza con ufficio delle poste e palestra benessere
Per circa 40 anni il villaggio ANIC, che portava anche nel nome il segno di una forte identità operaia, è stato sentito come una parte estranea alla città: la generazione di Reviati si definisce come “uno del villaggio”, prima che un ravennate, mostrando, anche nella ritrosia di quanti invece si guardano bene dal denunciare la propria provenienza dal villaggio, la forte vocazione identitaria della crescita tra le mura invisibili di questo quartiere satellite. Non è un caso dunque se Reviati alla sua prima prova di romanzo a fumetti vero e proprio, abbia scelto questo luogo come protagonista muto del racconto. Sono evidenti per chi lo conosce anche molte assonanze autobiografiche, ma esse rimangono un brusio, un elemento che sta in filigrana e non al centro della narrazione. Ciononostante l’impegno massimo dell’autore si è concentrato nel non dare elementi biografici e di dettaglio tali da rendere Morti di sonnoun romanzo autobiografico o il romanzo degli adolescenti del villaggio. Il romanzo al contrario è chiaramente la traduzione di quello che è rimasto nel setaccio della memoria dopo che la propria vita si è slavata dei suoi dettagli e ne è rimasto solo il senso. È quindi un racconto archetipico dell’adolescenza nelle periferie villaggesche urbane, con tutto quello che tale mood narrativo si porta appresso. La crudeltà incantata pasoliniana delle rane esplose nei campi, il calcio come strumento di crescita e formazione, il calcio anche come orologio per la ricostruzione della cronologia privata ancorata alla tempistica dei campionati, le suore di Crumb senza appeal sessuale, i destini incrociati di chi resta e di chi parte, il senso di incontrollabile sparizione che accompagna qualsiasi romanzo di formazione, l’errore di grammatica antiestetista messo nero su bianco. La dinamica tra universale e particolare è la flebile linea sulla quale si muove la bicicletta narrativa di Reviati. Le storie che si susseguono, il cui unico protagonista immancabile è appunto il villaggio, compongono un romanzo polifonico in cui l’adulto riconoscerà un pezzetto di giovinezza nel cortile, al contempo il ragazzino forse si identificherà in qualcuno, con ovvio aggiustamento generazionale, non diversamente da quanto succede a chi legge da adolescente oggi Il giovane Holden. Il ritmo narrativo dato dalla sequenza figure / parole mostra una grande attenzione all’evocatività dei luoghi, alla rarefazione del biografico nel poetico, senza sfuggire al realismo. Un realismo che prevede anche il magico, visto che si tratta di ragazzini, come nell’incontro con Teodorico: si tratta di un magico talmente consapevole che nella percezione degli adolescenti diventa esperienza.
C’è anche molta pudicizia. C’è quello che oggi viene chiamato “rispetto della privacy”, che in Italia fa venire la nausea tanto è ipocrita, tradotto invece nel vero senso etico del rispetto. Come in tutte le periferie del mondo nel villaggio ci fu un’entropia interna che portò alla deflorazione di una generazione, quella di Davide appunto, sconfitta e bruciata dai lapilli provenienti dal male del mondo. Eroina, sconfitta storica e disimpegno, effetti secondari e mortali dell’esposizione alla chimica, e altre amenità hanno ridotto la capienza numerica della classe ’60 e non solo. Di tutto questo c’è un sussurro tenace, un eco impaurita che evita la logica sanguinaria e fenomenalistica che impera in molto narrare (sia letterario che documentario). La periferia di Stato ha pagato un debito da strozzini, senza ricordare neanche quando ha contratto il debito e che cosa abbia dato in pegno. Ad ogni modo ha mantenuto una delle sue caratteristiche peculiari, il bisogno di pudore e silenzio.
Come ci ha insegnato Auerbach2, la realtà e la sua mimesi sono gemelli siamesi. Ciascun autore si porta dietro, anche quando scende negli Inferi come Dante, buona parte del suo mondo fisico, politico e sociale. Reviati, oltre a portare nella storia che racconta parte del suo vissuto, ha inserito il suo mondo pudico nella modalità narrativa operata, nel modo di costruire il testo, in polifonia, con rispetto per l’altro, con grande attenzione ai silenzi, senza pietismo. Probabilmente farà anche libri migliori, ma forse nessuno doppierà l’autenticità e la partecipazione emotiva di questo. Un canto gregoriano per un’Italia che non c’è più, anche se esiste ancora l’adolescenza e il suo sguardo.
1 I dettagli sull’evoluzione del Villaggio ANIC sono tratti dalla tesi di laurea di Angela Longo…
2 E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Torino, Einaudi,1956.