Pubblicato sul catalogo di Selvatico, Cotignola (2011)
Il disegno assomiglia a una sorta di scrittura. Nell'antichità si usava anche il termine “antigrafia” per indicare sia l'atto di disegnare quanto quello di scrivere. Questa contiguità permette
con minore senso di vergogna di spendere parole sull'atto del disegnare. Spesso l'effettiva limitatezza del discorso, scritto o parlato, la mutilazione delle frasi sull'arte, mi spingono a
pensare che il miglior lavoro critico sul disegno dovrebbe essere disegnato. È un percorso che il fumetto sta intraprendendo, quello di esplorare le possibilità con cui la sequenza disegnata può
“dire” qualsiasi cosa. C'è molta confusione in merito. Alcuni usano etichette come “Graphic Novel” o “Graphic Journalism” (rigorosamente in inglese, of course) per il loro valore intrinseco di
marketing, senza posare lo sguardo su quanto stanno catalogando. Ma la strada è aperta. Il giardino è ampio e incolto e la crescita dei frutti dipende dai giardinieri.
Il disegno è anche la documentazione autobiografica della scoperta di un evento. Che cosa rimane di quell'autobiografia in quel nuovo evento che è il disegno? Quanta parte dell'autore, della sua traccia del mondo si consolida nell'atto di disegnare e viene restituita al guardatore? Questa è un'indagine che può portare al nero come categoria interpretativa, come forma assoluta della ricerca del colore. Il nero non esiste in natura.
C'è anche il livello metaforico: il buco nero che si produce quando la propria storia si misura con l'atto di disegnare, con il creare il buco narrativo sostanziale alla creazione di una sequenza disegnata (la vera differenza tra fumetto e cinema: tra una vignetta e l'altra c'è sempre un buco da riempire. E questo riempimento è il lavoro attivo del lettore), ha una dimensione di difficile misurazione. E fino a dove questo buco costituisce una possibilità, e quando invece il buco, l'assente, il nero, diventa provocazione stilistica che infrange il genere e crea un nuovo evento, di difficile nominazione? Nel processo di costruzione di una sequenza narrativa classica ci sono alcuni passaggi che sono quasi ineludibili se si vuole ottenere un certo tipo di narrazione. Eppure questi canoni oggi sembrano accantonati da moltissimi autori, in particolare autori del bianco/nero, dell'underground, che scelgono questa cifra stilistica non per ragioni di preferenza, ma di costi diretti di stampa. Non c'è nulla di consapevole ed elegante in tutto ciò, ma lo splendido utilizzo di necessità che diventa per forza virtù. Dunque, in una sequenza il buco nero narrativo può crescere a dismisura, stimolare il lettore (o forse meglio, il guardatore) a fare di ogni singola immagine e parola/e un'esperienza unica, che pure si muove in una direzione che l'autore ha deciso. L'autore mantiene in questo modo ben saldo il controllo della proprio evento autobiografico, la propria voce, ci guida nell'ordine delle immagini, ma al tempo stesso ha reciso quel discorso narrativo continuo e lineare che aveva recepito un certo tipo di codice. Non faccio nomi, l'elenco c'è. E anche alcuni autori in mostra seguono questo ripido processo.
La melanconia è il nero, dentro la parola stessa (da melan che significa proprio nero ma anche inchiostro): il sole nero della Kristeva, l'inchiostro che attrae la malattia di Saturno. La malattia dell'inchiostro.
Nel disegno in bianco e nero, dove sappiamo che il nero assoluto non esiste, esiste un altro soggetto che prende decisioni ed influisce: la carta. Il disegno non è altro che annotazione su carta: ci sono dipinti, fotografie che possono essere riconosciuti da animali ma questo non vale per il disegno in bianco e nero. Il disegno non compete con la realtà, anzi attiva altri meccanismi, dichiara un'esperienza temporale. Qualsiasi immagine registra un'apparenza che scomparirà, ma il disegno aumenta la nostra consapevolezza della fugacità, dell'assenza. È più ciò che manca che quanto c'è. Riattiva l'attenzione, la memoria, dialoga con la caducità e la rende esplicita.
Il disegno è nero, perché è l'adunata dell'assenza.