L'intervista allo scrittore passato da Feltrinelli di Elettra Stamboulis
Quale sia il confine tra persona e personaggio, e se esso effettivamente esista, è una delle questioni centrali della produzione di Antonio Tabucchi. Forse non è un caso che Andrea Bajani abbia
reagito alla morte dello scrittore con cui aveva instaurato un legame importante rendendo lo stesso Tabucchi personaggio di questo strano romanzo/epistola dal titolo Mi riconosci
(presentato alla Feltrinelli di Ravenna giovedì 30 maggio).
Molti hanno interpretato questo tuo ultimo libro come un'indagine sul rapporto tra generazioni, oppure un dono di un figlio al padre simbolico...
«Sì, è vero. Peccato che io non creda esattamente nel concetto di “generazioni”. Non è la cosa prevalente per me nelle relazioni, nel legame. E in particolare con Tabucchi, con il quale avevo un
rapporto più simile a quello di due bambini che giocano seriamente. Hai presente quando due bambini giocano con due pietre e dicono questo è pinco e quello è caio e se le pietre cadono in un
tombino poi si può anche piangere? Ecco, quella serietà lì, che è strutturale nella scoperta, nel dialogo. È la stessa serietà giocosa che mi guida anche nelle mie esperienze con gli
adolescenti».
Raccontaci qualcosa di più questi tuoi percorsi di avvicinamento alla lettura e alla scrittura che conduci da diversi anni.
«Sono contesti molto faticosi, ma molto intensi, in cui, per ritornare ai due bambini che giocano, se un bambino ha un gioco che l’altro vuole, non lo vuole per il gioco in sé, tant’è che se lo
conquista scompare anche l’interesse. Vuole gli occhi con cui l’altro bambino vede quel gioco. Ecco, io cerco di proporre la letteratura cercando di rendere desiderabile lo sguardo con cui io
leggo. Questa è la base con cui lavoro, attivare situazioni di gioco serissimo in cui indaghiamo i nostri sguardi: ad esempio nel progetto per il Salone del libro di Torino l’idea giocosa di
inventare parole inesistenti su temi sentiti come più rilevanti mette insieme questi due aspetti. E i risultati parlano da sé, da “biostalgia” a “perdistanza” sono termini che individuano
qualcosa che c’è, ma prima non c’era il modo per dirlo».
In questo approccio c'è molto del tuo essere creativo, sconfinare dagli ambiti della scrittura letteraria per sperimentare anche altri spazi, come il teatro con Paolini,
la radio. Da dove sei partito?
«Sono partito dalla confusione, in cui c’era un’unica certezza. Avrei voluto scrivere. Semplicemente quando vedevo dalla finestra del futuro passare altre ipotesi, che sono passate come un corteo
di eventuali possibilità, l’unica sulla quale mi potessi ritrovare era quella della scrittura. Quindi laurea in Lettere, poi esperienze di ricerca, ambito letterature comparate. Ma quel mondo mi
stava stretto. Così fuga nella realtà. Correttore di bozze, progettista di eventi, quell’ambito indistinto del precariato cognitivo. Su cui ho anche scritto un libro reportage Mi spezzo, ma
non m’impiego, che oggi sento come troppo ironico. Non lo farei più con quel tono, perché quello che allora mi sembrava bislacco, oggi è drammatico. Poi mi ha salvato la Cgil...»
Una vertenza sul lavoro...
«No, una fortuna: il centenario del sindacato. Per il quale inseriscono nel carnet gli spettacoli una serie di reading per le camere del lavoro, tra cui anche un mio intervento. Ovviamente quello
che costa meno, visto che nessuno mi conosce. Questo, insieme a un piccolo anticipo che Einaudi mi diede per un libro, mi permisero di smettere di lavorare per vivere e cominciare a vivere per
lavorare. Girai tutte le sedi più piccole e sconosciute, tra cui ricordo una sarda con i minatori pensionati che ascoltavano perplessi la mia lettura sui precari. Questo mi permise anche di
viaggiare, cosa che non avevo mai fatto e che costituisce uno degli strumenti di lavoro più rilevanti che ho. Quando scrivo di Romania, vado e vivo lì. Per me la verità di quanto scritto è molto
più rilevante dello stile».
Quindi, quale potrebbe essere il tuo consiglio per un giovane che vede dalla finestra del futuro la scrittura come opzione?
«Fammi leggere qualcosa... La curiosità verso la letteratura, l’adesione alla sua profondità sono quello che ho trovato di inaspettato in Tabucchi, che lesse Se consideri le colpe e
volle scrivermi una lettera. Fu questo il motore della nostra amicizia».
E il luogo galeotto fu la casa di Valerio Adami...
«Esatto, un altro signore che mi ha permesso, anche ospitandomi a casa sua a Parigi, ad accedere ad un mondo dal quale sono molto attratto che è quello delle arti visive. Anche la copertina di
Benati di "Mi riconosci" è stata scelta da me ed ha un valore semantico nei confronti del libro che apre. Ho anche scritto un testo per un catalogo di Berruti, un altro artista che stimo molto e
il cui disegno mette in linee cose che vorrei dire».
Torniamo alle esperienze con i giovani: Domani niente scuola è uno strano libro nato dall’osservazione e dalla condivisione di un tempo sospeso come quello delle gite scolastiche
con tre gruppi, uno di Torino, uno di Palermo e uno di Firenze. La cosa curiosa è che è incredibilmente assonnante con la non scuola, che ha sede proprio a Ravenna.
«Conosco Ermanna e Marco, con i quali posso dire c'è una vicinanza di sensibilità, un domandarsi uguale. E sono anche particolarmente legato a Bagnacavallo».
Bajani ha vinto una schiera di premi, Bagutta, Super Mondello, Lo Straniero, Recanati, fattori che in alcuni casi potrebbero costruire un ottimo alibi per alzare il sopracciglio e sentenziare con
fervore. Stupisce, così come lui si stupì della curiosità di Tabucchi, la sua inesauribile curiosa voracità del reale, il desiderio di acchiappare con le parole e l’ascolto nel caos delle voci
spicchi di realtà. È quindi inesauribile l’intervista, un’aria piena di possibili aneddoti, personaggi, letture, analisi, domande.