Pubblicato nel catalogo R.A.M. 2013, GIUDA edizioni, Ravenna
Nel due qualcuno si fa sempre male.
Il presente non è ciò che si è, ma ciò che si fa...
Noi non percepiamo, praticamente, che il passato dal momento che il puro presente è l’inafferrabile progresso del passato che erode il futuro1
Maria Ghetti opera come una ricercatrice sociale dello spazio, un’artefice che vuole rendere visibile l’invisibile, un’ape operaia nello spazio obsoleto. È una transumante della campagna. Poggia i piedi tra Torri di Mezzano e il Belgio. Si interroga sull’integrità del sé come farebbe un giovane Jung: la relazione tra l’Io e il sé, che può essere orizzonte e possibilità. L’orizzonte è una meta, non solo e non tanto fisica, e la possibilità nuota nella costante e incessante vorticosità del mutamento.
L’etica del flusso, che tanto ha influenzato il pensiero protonovecentesco e non solo, ricompare in nuove forme, si veste di altre rappresentazioni: la dematerializzazione del sapere non ha sconfitto la materialità dell’esistenza, dello stare qui e altrove. Anzi, la deriva identitaria che stiamo vivendo ne richiama fortemente le istanze. Questa generazione, consapevole o meno di essere la custode di questo pesante fardello, ne riprende i quesiti, ne riconosce nuovamente, rivedendone però i codici, l’attualità.
Così Ghetti rifugge il dualismo culturale: “La società occidentale moderna in cui viviamo è figlia di una cultura dualistica (bianco/nero, bene/male, anima/corpo, lontano/vicino, etc..). Questa proprietà intrinseca ci porta a volte a costruirci una raffigurazione monolitica di noi stessi, fondata sulle nostre certezze, tante volte percepite come matematiche (se non siamo neri siamo per forza bianchi!)”. E invece nell’erranza dei cromosomi ci sono solo infinite possibilità di tonalità. Già Donna Haraway2 vedeva nel dualismo un falso ideologico, volto a stabilire la supremazia di uno dei due elementi sull’altro: uomo/donna, bianco/nero, corpo/mente, sono in realtà coppie in conflitto in cui uno prevale sull’altro.
L’installazione Contro l’apparente dualità vuole operare nell’instabile mobilità dell’immagine catturata e rifratta. Il multiforme è per ammissione della stessa artista, la condizione del nomade. Che vive nell’individuazione, nell’essere qui ed ora, ma eternamente sfuggente. Così lo specchio, uno degli elementi più costanti di un artista italiano ormai storicizzato come Pistoletto, diventa lo strumento prismatico che intercetta spazio e tempo. Esso, come sosteneva il giovane Pistoletto nella storica mostra del ‘78 a Torino, può riflettere tutto, tranne se stesso. Eppure, può anche moltiplicarsi quando più specchi interagiscono. Suddividere diventava per l’artista il fondamento sostanziale di ogni sviluppo organico e aveva anche un valore sociale, “la condivisione come logica alternativa a quella dell’accumulazione e dell’esclusione”. Maria è un’epigona selettiva dell’interpretazione di Pistoletto: non ne fa un uso esclusivo e stilistico, ma ne sfrutta la valenza, ne cita la vocazione artistica, per un’opera che dialoga con questo tema, con una domanda che diventa dialettica concreta.
“Se l’arte è lo specchio della vita, io sono lo specchiaio”, asseriva l’artista biellese. Attratta più dal suo aspetto ludico, in cui il gioco diventa strumento cognitivo e non “divertimento” (dal latino deversus, volgere altrove, deviare), Ghetti è propagatrice di uno stupore bambino: vuole invitare il pubblico a riconoscersi nella nomade immagine, a ricomporre e acciambellare le certezze, che sono fumo se diventano un monolite. La certezza è pietra fragile, che porta al sonno della ragione.
1 H. Bergson, Materia e memoria. Saggio sulla relazione del corpo allo spirito, in H. Bergson, Opere, 1889-1896, di F. Sossi, a cura di P. A. Rovatti, A. Mondadori, Milano 1986, pagg. 257-258 396-397)
2 Donna Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, a cura di L. Borghi, Milano, Feltrinelli 1995