Dietro l'obiettivo di Laura Liverani di Elettra Stamboulis
In mostra fino al 7 novembre alla galleria fotografica Interzone di Roma, Laura Liverani vive tra Faenza e Tokyo. Laureatasi al Dams, non ha mai smesso di osservare, guardare, provare a
fermare il tempo e il luogo. Dopo un master di fotografia a Londra, l'Asia è diventata la sua seconda casa. Un luogo che ha rappresentato sia in istantanee crudeli e veritiere, che in poetiche
interpretazioni come queste della mostra romana, realizzate con la particolare tecnica stenopeica. Docente da diversi anni all'Isia, è una sorta di occhio italiano sui misteri delle tigri
asiatiche.
Dunque ... Raccontami un po' della tua vita, sei nata a Ravenna e poi?
«Sono nata a Ravenna, ma sono cresciuta nella provincia lombarda, dove i miei si erano trasferiti per lavoro. In ogni caso ho sempre mantenuto un legame forte con Ravenna, dove tornavo ogni anno
con la famiglia durante le vacanze estive, e dove torno tuttora spesso. Da due anni son tornata “romagnola“ perché ora vivo a Faenza, dove insegno fotografia all'Isia. Anche se in Italia non
passo che pochi mesi l'anno».
Come sei arrivata nella lontana Asia?
«La prima volta che sono stata in Asia vivevo ancora a Londra nel 2000. Sono partita per Hong Kong, con l'idea di fare un viaggio in treno fino a Pechino ed esplorare la scena musicale
underground, che allora era molto interessante. Ho cominciato a fotografare i quartieri popolari di Hong Kong e a lavorare ad alcuni servizi fotogiornalistici sulla Cina Popolare poi venduti alla
stampa italiana; tornavo in Cina ogni anno. Sono stata in Giappone nella prima volta nel 2007, venendo da Shanghai. Con Tokyo è stato amore a prima vista e da qualche tempo vi passo dai tre ai
sei mesi l'anno».
Sei fotografa: come lavori, con quali tempi, con quali modalità ... Soprattutto nel mondo dell'arte o dell'informazione?
«Il mio lavoro ed approccio alla fotografia è cambiato nel tempo. Quando ho cominciato ero più attiva nel mondo dell'informazione, con servizi editoriali di viaggio e cultura per riviste in
Italia e in Asia. Fotografavo e scrivevo. Quando sono tornata in Italia da Londra, alle fine del 2000, dove ho studiato fotografia e vissuto per quattro anni, ho cominciato ad insegnare
parallelamente alla mia attività di fotografa freelance. Anche oggi più o meno la situazione è questa: insegno fotografia all'Isia di Faenza, e porto avanti progetti personali e commissioni. Sto
perdendo graduale interesse nella fotografia editoriale e di informazione (pagata cifre ridicole oggi, con poche eccezioni), a favore della ricerca personale, comunque sempre legata al linguaggio
della fotografia documentaria. Le commissioni a cui lavoro sono tra le più varie: libri, moda, cataloghi, soprattutto in Giappone. In Italia lavoro pochissimo, e ci passo sempre meno tempo».
Hai studiato a Bologna: che cosa ricordi di quella esperienza? Come l'ha i trasferita nella tua esperienza di insegnamento?
«Della vita da studente a Bologna mi ricordo, oltre alle deprimenti case condivise in cui ho vissuto, la scintillante vita sociale: erano gli anno del Link, del primo TPO occupato, di Luther
Blissett e della piscogeografia. Facevo un programma di musica sperimentale rock e noise a radio Kappa, un'emittente autogestita, che era una scusa per andare a vedere gratis tutte le band
che suonavano in zona. Non avevo ancora cominciato a fotografare. Dopo la laurea mi sono trasferita a Londra per un master di fotografia, e la mia esperienza di insegnamento è sicuramente più
legata all'esperienza universitaria a Londra».
Domanda di rito... Fonti di ispirazione, fotografi che consideri maestri, vicini e lontani.
«I fotografi che amo cambiano nel tempo. I miei primi “amori“, sono stati Weegee e William Klein. Tra i contemporanei il primo nome che mi viene in mente è Taryn Simon. Mi piace moltissimo anche
la fotografia giapponese degli anni '60, e tra le nuove generazioni Lieko Shiega. Tra le fonti di ispirazione, dirette e indirette, anche il cinema di Hong Kong degli anni '70-80, e i deliranti
film giapponesi ero-guro, un nome su tutti: Ishii Teruo».
Cosa racconta una fotografia dell'odierno est? In Neon Dreams alla galleria Interzone di Roma esponi sia fotografie che immagini time lapse. Ci racconti la tecnica che
usi e le motivazioni di questa scelta?
«Non sono paesaggi reali, ma immaginati, sognati. La tecnica del foro stenopeico, applicata tanto alla pellicola quanto al supporto digitale, si presta perfettamente a questo, come ho scritto
nella mia introduzione. Usare la pinhole è come usare una macchina del tempo: dal qui-ed-ora si viene trasportati altrove».
Paesaggi distopici, luoghi in cui il qui ed ora scompare...è proprio questa l'esperienza di vita nelle metropoli dell'estremo?
«L'esperienza reale nelle metropoli asiatiche ovviamente non è rispecchiata dalle mie immagini, e soprattutto varia da città a città. Pechino, Hong Kong e Tokyo sono diversissime tra loro e
la loro percezione varia da persona a persona. La mia è una rilettura dei luoghi molto personale, filtrata dalle mie memorie, dal cinema e dalla letteratura. Detto questo, la mia prima
impressione di Pechino è stata realmente di una città aliena, da incubo, eppure affascinante. Guardavo fuori dalla finestra dell'hotel e vedevo una torre di acciaio spuntare dallo smog, come
sospesa nel vuoto, un'immagine bellissima. Tokyo invece è una città sorprendentemente tranquilla, dove giro in bici e faccio pic nic al parco con gli amici. Basta evitare la stazione di Shinjuku
all'ora di punta, dove l'essenza dell'incubo metropolitano si materializza»...