Mappe alternative per città senza memoria, inguineMAH!2009 – anno7 (2009)
Se vogliamo combattere questo mondo, dobbiamo farlo combattendo la sua caratteristica preponderante, la transitorietà. È l’opinione di Kafka, ma anche di chi registra in qualsiasi modo un aspetto della realtà. E la transitorietà delle esperienze che hanno riempito alcuni luoghi delle nostre città è stato il tema di questa sezione di inguine.
Se in tutti i tentativi di presa della transitorietà, vige la menzogna, è il contenuto di verità della menzogna che ci interessa. La sua limitatezza non può frenare lo stimolo naturale della ricerca.
Questi luoghi essenzialmente transitori, occupati, questi spazi che hanno sedimentato più parole e suoni che carte e registrazioni, sono stati spesso rappresentati dalla retorica della menzogna. Oppure dalla sua compare più temibile, l’amnesia. Visto che non si sono mai posti l’obiettivo della memoria della propria esistenza, sempre tesi ad esistere e a pensare ad un orizzonte futuro, al fare immanente, gli spazi occupati non lasciano traccia. Finiscono esclusivamente nella memoria individuale di chi li ha praticati. Non è certo obiettivo di questo numero ovviare alla loro transitorietà, anche perché chi li ha animati e vissuti probabilmente non aveva nella loro sopravvivenza un obiettivo, ma in quello che dicevano e che offrivano in quel momento lì, per quel attimo che dura un millennio.
Ci sono poi altri luoghi che si sono nascosti nelle pieghe. Ogni città è fatta di molte mappe: quelle ufficiali, quelle dei luoghi nascosti, quelle dei posti che non ci sono più, quelle dei luoghi che sono appartenuti a molti e poi sono scomparsi, delle nostre geometrie quotidiane. Attenzione, non vogliamo avventurarci nelle definizioni non luoghiste amate da molta critica contemporanea. Anzi, è semmai vero il contrario. I luoghi di cui si racconta sono proprio quelli densi di esperienza antropologica.
È evidente anche la forte impronta soggettiva del ricordo. Questa ci fornisce quella patina malinconica che avvolge tutte le storie realizzate. Lo sguardo verso se stessi, quel sé che ancora non ha necessità di raccontarsi perché troppo intento a vivere, è sempre vicino all’umore di Saturno, la malinconia. Essa è la porta più vicina al desiderio oscuro, al rapporto interrotto con un oggetto che viene sottratto alla coscienza, come si esprimeva Freud. È quella malinconia che impera nel balbettio odierno di molta politica, che fatica a riappropriarsi dei luoghi e delle vite che li hanno resi possibili, di quelle parole e di quel ideare che hanno sancito anche il proprio accesso al pensare di gruppo. Molti si sono persi, alcuni si sono arresi, altri balbettano. Ovunque questo senso d’inopportuna malinconia, che un po’ di sente anche in queste storie che raccontano dei luoghi sottratti.
Forse la soluzione è negli ultimi versi della Dickinson, nella possibilità “che si alteri la tenebra”. Perché è proprio facile abituarsi al buio. Spesso sento, in questo sottrarre continuamente luoghi comuni alla collettività con la menzogna della restituzione alla comunità di tali spazi (un classico direi della propaganda sgombratoria), che piano piano diventerò cieca, assorbita dal buio della città senza luoghi di incontro.
Ci abituiamo al buio
Quando la luce è spenta;
Dopo che la vicina ha retto il lume
che è testimone del suo addio, ù
per un momento ci muoviamo incerti
perché la notte ci rimane nuova,
ma poi la vista si adatta alla tenebra
e affrontiamo la strada a testa alta.
Così avviene con tenebre più vaste.
Quelle notti dell'anima
In cui nessuna luna ci fa segno,
Nessuna stella interiore si mostra.
Anche il più coraggioso prima brancola
un pò, talvolta urta contro un albero,
ci batte proprio la fronte;
ma imparando a vedere,
o si altera la tenebra
o in qualche modo si abitua la vista
alla notte profonda,
e la vita cammina quasi dritta».
E. DICKINSON, (trad. it. Tutte le Poesie,
Mondadori, Milano, 1997, p. 459).