Forse non molti sanno che dall'anno scorso la cattedra di Pittura all'Accademia di Belle Arti di Ravenna è stata affidata ad Andrea Chiesi, un pittore e un intellettuale che attraversa la fine del novecento e le sue inquietudini, arrivando all'oggi con una spirituralità zen che si vede nei tempi lunghi delle sue creazioni. Proviene dall'esperienza emiliana di confine, dove l'ossessione di assoluto per dirla con Tondelli, porta al post punk dei CCCP, con cui Andrea ha collaborato anche poi nel passaggio a CSI. Ha esposto a New York, a Berlino, e recentemente in Cina, eppure rimane sostanzialmente radicato profondamente nel modenese.
Si tratta di piccoli miracoli dello sguardo pedagogico: in così poco tempo gli studenti sono cresciuti di numero e molti hanno deciso di biennalizzare la materia, come ci ha raccontato lui stesso.
E: Che cosa ti ha spinto a insegnare? Non l'avevi mai fatto prima credo...
A: Esatto. Un po' come la pittura, ci sono arrivato tardi. In fondo è una continuazione nella pratica di un metodo che applico da tempo, quello maieutico intedo. Far nascere da dentro, farti scoprire quello che già c'è. È in un certo senso il mio modo di guardare al mondo che credo si veda anche dalla mia pittura.
Si era aperto con Plessi l'anno corrente all'Accademia di Belle Arti di Ravenna e si conclude con Omar Galliani, venerdì 5 giugno, indubitabilmente il disegnatore più virtuoso e conturbante del panorama artistico italiano. Il dialogo con i maestri non si può concludere solo con quello dei docenti, ma con l'apertura agli sguardi e alle mani di chi fa arte ai massimi livelli. La tensione pedagogica di Galliani è visibile non solo perché il maestro insegna all'Accademia di Carrara. È l'impatto della sua visione, la luce che emerge dalla linea nerissima che costruisce le figure di una bellezza evocativamente rinascimentale di un disegnatore che continua a peccare utilizzando il disegno come arma per ricomporre una bellezza dispersa e magica. Non a caso nel 2005 a Torino una sua opera dalle dimensioni sempre maestose (5x6,3 metri) è stata messa a confronto con il volto dell'angelo di Leonardo preparatorio per la Vergine delle Rocce. Artista che ha esposto in tutto il mondo, possiede una naturale indole a concedere tempo alle cose.
Massimiliano Fabbri (Faenza, 1972) è un artista totale: pittore, curatore, agitatore culturale, un loquace e poliedrico affamato di arte, che carpisce ai bambini i piccoli e grandi segreti dello sguardo disincantato. Vive a Cotignola, dove è anche cresciuto, dove anche lavora, dove organizza mostre e rassegne che fanno impallidire i vicini parigini.
Come sei diventato pittore? Era quello che volevi fare da piccolo?
«No, da piccolo volevo fare il fumettista... Poi una serie di incontri in Accademia a Bologna, una serie di gesti banali o semplici, che in realtà non lo erano, hanno sviato il mio percorso. Pulini ad esempio la prima volta che ha visto il mio lavoro mi ha portato alla biblioteca del Dams e mi ha aperto un libro di Lucien Freud e uno di Auerbach. Scoprii che c'erano altri che avevano allenato lo sguardo a cercare quello che io con fatica cercavo. Fu un gesto che ritengo importante, anche adesso: l'arte è un luogo di furti, di metabolismo continuo di ciò che c'è già stato».
E' possibile che il pensiero prenda forma in immagini? Proviene da studi filosofici l'artista Silvia Camporesi, protagonista insieme a Valentina Accardi a Rimini del progetto “Vie di dialogo”. Silvia, classe 1973, ed è sicuramente una delle artiste della nostra regione su cui tenere gli occhi puntati: per il rigore del lavoro, per la ricerca formale e intellettuale alla base di ogni progetto che usa la fotografia come mezzo puramente artistico.
- Quando si è consumato il tuo incontro con la fotografia? Come soprattutto si è consumato questo incontro...
- Ero verso la fine dell'Università dove studiavo Filosofia, e ho incontrato alcuni fotografi che mi hanno insegnato la tecnica in maniera molto basilare, stampando in camera oscura. Quando ho cominciato a fotografare ho capito subito che non era solo documentazione, ma uno strumento con cui potevo inventare dei mondi. E quindi ho subito inserito un aspetto più filosofico nella ricerca.
Lo sguardo di Alessandra Dragoni
La fotografa fondatrice di My Camera si racconta
di Elettra Stambouls
È minuta, sorridente e sbarazzina Alessandra Dragoni: è figlia del nomadismo dello sguardo e la sua costruzione biografica nasce dalla casualità suadente del destino. Da Ravenna al mondo e ritorno, cura l'unica galleria di fotografia della provincia e una delle poche in Regione. Si chiama con grande riservatezza e umiltà My Camera, come a dire, c'è la fotografia (in inglese), ma è anche la mia stanza.
Sei nata e cresciuta a Ravenna e quindi anche gli studi li hai fatti qui?
«Sì, sono romagnola, e ho studiato alle mitiche Magistrali sperimentali a indirizzo linguistico. Devo dire che quello fu il contesto in cui scoprii che c’era un mondo là fuori, grazie Maria
Teresa Rossi, docente che andrebbe ricordata a Ravenna. Lei mi ha molto capita, ispirata e appassionata alla conoscenza. Invitò a scuola Carmelo Bene, il Living Theatre...»
E poi partisti...
«Sì, all’inizio a Lingue a Cà Foscari, un percorso che non conclusi. L'Università mi stava stretta, così partii con un’amica per l’Olanda. Erano gli anni ’80. E lì mi sono fermata. Primo lavoro
in pizzeria: proprietario israeliano, pizzaiolo marocchino, cameriera canadese, lavapiatti egiziano...»
E tu...
«Io che mi guardavo intorno, imparavo la lingua, e mi incuriosivo di fotografia, che mio padre praticava amatorialmente. Andai tramite un amico, convinto che fossi sprecata come cameriera,
all'agenzia Abc press, fondata negli anni Cinquanta da un giornalista ungherese amico di Robert Capa... un’agenzia importante, che forniva i principali quotidiani e riviste olandesi. All'inizio
feci lavoro di archivio, poi mi iscrissi a una scuola di fotografia. Era un periodo fecondo, di grande attenzione per le arti visive: in ogni quartiere c'erano camere oscure disponibili».
Marco Antonini, un eclettico che ha fatto strada nella Grande Mela
di Elettra Stamboulis
Marco Antonini fa parte di quella magmatica generazione di laureati in Conservazione dei Beni Culturali di Ravenna: ancora oggi è difficile incasellarlo in una categoria precisa. Di origini pescaresi, ha mosso i primi passi da artista (vincendo il concorso Ram come fotografo) e curatore (collaborando ad esempio con la galleria Ninapì) nella nostra città, per poi migrare come molti all'estero.
La Grande Mela l'ha accolto e, se non coccolato (che la metropoli è madre matrigna), sicuramente valorizzato. Oggi è il direttore responsabile della galleria NURTUREart, specializzata nella selezione di giovani talenti e progetti collettivi. Ha vinto numerosi riconoscimenti tra cui anche il fatto di essere finalista al premio Andy Warhol Foundation Art Writers
Che cosa significa oggi curare una mostra a New York? Tu hai una personalità poliedrica, artista curatore poeta. Come coniughi queste diverse attitudini?
«Significa quello che significa ovunque nel mondo, solo in un contesto estremamente competitivo, in cui l’attenzione per l’arte contemporanea e il livello di alfabetizzazione in termini di
cultura visiva e storia dell’arte contemporanea sono molto, molto alti. Qui a NY il pubblico è al contempo presente, nel senso che è attentissimo a ciò che viene proposto, e assente, cioè meno
disposto ad approfondire e discutere, poiché la sua attenzione è catturata da tantissimi eventi, tematiche e informazioni concomitanti. C’è un grande valore, ma anche un limite in tutto questo.
Personalmente uso NY come una base strategica. Qui è facile incontrare persone e idee in transito. La convenienza strategica dello “stare” a NY in attesa di vedere il mondo passare dalla porta
(che in effetti succede, e spesso…) è, paradossalmente, quella di sentirsi un po’ tagliati fuori, di non essere noi stessi a partecipare in prima persona a quel che succede, e che a NY viene
recepito, discusso e rappresentato. Io ero artista visivo, sono poeta e scrittore della domenica, gioco ancora con la macchinetta fotografica (una vecchia Pentax ME Super), e curo il design e la
produzione delle nostre pubblicazioni a NURTUREart spesso anche di quelle prodotte dalle istituzioni con cui lavoro come curatore indipendente. Prima ancora mi sono ritrovato ad essere musicista,
pseudo-produttore, fanzinaro, DJ… un sacco di roba; un approccio “totale” al lavoro che spesso non viene capito e/o accettato. Mi va bene così perché per natura non sono una persona che ama
specializzarsi. Mi sono sempre sentito più libero come eclettico, anche se in alcuni aspetti del mio lavoro mi sento più “esperto” di altri. Forse il periodo precedente avrebbe più senso
sostituendo la parola “lavoro” con la parola “vita,” perché alla fine vivere a modo mio è praticamente quello che faccio per vivere. Anche per questo ho deciso di intitolare la mia pagina web
“Sempre Meglio che Lavorare”. Lavorare stanca».
Da Ravenna alla Grande Mela. Già dirlo fa sorridere... Come è stato l'impatto iniziale? Cosa ti sei portato dietro e cosa hai dovuto abbandonare?
«Mi dispiace molto che una frase come “Da Ravenna alla Grande Mela” faccia sorridere. L’impatto iniziale non riesco più a ricordarlo bene. Rileggo degli articoletti che scrivevo appena arrivato a
NY e mi suonano disperatamente naif, ma anche onesti. Dietro mi sono portato, e ancora mi porto, una grande nostalgia per le persone, le cose, le situazioni vissute durante i miei anni in Italia,
soprattutto una nostalgia per la gente di Ravenna e per i miei amici che ancora vivono li. Non ho ancora trovato un modo di riconciliare il mio presente e il mio passato in un futuro che posa
contenerli entrambi, accogliendo le varie personalità che, di esperienza in esperienza, sono venute ad esistere in me».
Il tuo sguardo adesso è diventato largo: che cosa vedi del mondo dell'arte italiano? Consiglieresti a un giovane artista di prendere l'aereo e attraversare l'Oceano?
«Non conosco molto il mondo dell’arte italiano. Spesso incontro persone fantastiche, ma il fatto che le incontri puntualmente a NY o altrove in giro per il mondo parla da se. Partire è sempre
utile e importante. Non mi sento di poter dare consigli, io qui ho fatto tantissimi errori. Se decidete di fare un salto in qua, leggete America di Baudrillard prima della partenza:
aiuta».
Torniamo ancora alla formazione. Al tuo periodo universitario a Ravenna: che bilancio fai di questa tua scelta? Se potessi cambiare qualcosa che cosa?
«Ravenna è stata una città importante per me, ancor di più la gente di Ravenna: quel loro misto di pragmatismo e rilassatezza che ho sempre sentito così vicino. Conservazione dei Beni Culturali
era o, se esiste ancora, suppongo ancora sia un progetto malriuscito, con professori eccellenti e cialtroni seduti allo stesso banco, infrastrutture insufficienti, programmi e metodi didattici
antidiluviani, la storia dell’arte contemporanea studiata su libri scritti con una mano sola dai soliti noti della critica Italiana. Mi viene da ridere al solo ripensarci. D’altro canto è stato
bello poter studiare con dei veri esperti della storia dell’arte medievale (settore in cui, pur volendo occuparmi di arte contemporanea, mi specializzai, scegliendo in base alla qualità degli
insegnanti… un’idea di cui non mi sono mai pentito) e immerso nel museo a cielo aperto di Ravenna. Un errore madornale che ho fatto durante i miei anni di università è stato quello di non
viaggiare abbastanza e forse anche di non aver saputo esplorare e capire la scena artistica e culturale di città relativamente “vicine” come Torino e Milano… persino Bologna, dove pure andavamo
spesso. In quelle città, gli anni novanta sono stati un periodo fantastico. A Ravenna si restava spesso intrappolati nel localismo, incapaci di guardare al di fuori se non per emulare, senza le
basi culturali per rielaborare gli stimoli che ci arrivavano dall’esterno, per immaginare “in grande,” per pensare rivolti al futuro. Quel tipo di ambizione si vedeva nella scena del teatro
sperimentale e nel lavoro dei pochi musicisti, artisti e operatori culturali locali che davvero ci credevano; qualcuno è emerso, qualcuno no, qualcuno ha lasciato perdere e qualcun’ altro alla
fine è andato via».
La siciliana Giambrone protagonista al Mar
di Elettra Stamboulis
Inaugura sabato 14 dicembre alle 18 al Museo d'Arte della Città di via di Roma 13 "Critica in Arte 2013", Silvia Giambrone uno dei tre artisti protagonisti, insieme a Francesca Pasquali e Eron. Parliamo con lei della sua arte e dell'esposizione ravennate.
Silvia Giambrone (Agrigento, 1981) è una artista poliedrica che utilizza scultura, fotografia, istallazione, ma soprattutto il corpo, come arma intensa e inalienabile della nostra presenza nel mondo. E del suo corpo appaiono questi capelli alla Tiziano, rossi e impertinenti, per una siciliana come Silvia. Sarà una delle protagoniste delle mostre personali di Critica in arte 2013 al Mar (fino al 12 gennaio), ma soprattutto è una delle protagoniste emergenti dell’arte contemporanea italiana che non cede all’effetto show, ma richiede tempo, attenzione e dedizione.
Una parole che risuona in diverse interviste è “intensità”: è questa la cifra che vedremo nella mostra di Ravenna?
«Credo che l'intensità fosse proprio uno degli aspetti che Silvia Cirelli, la curatrice della mostra che mi ha invitata al Mar, volesse evidenziare per Critica in Arte, e credo altresì che questa
sia la ragione per cui abbiamo lavorato insieme in grande armonia. Ricercare l'intensità è qualcosa che che ti chiede di non adagiarti su quanto hai già vissuto, ti mette nella posizione di
guardare qualcosa sempre come fosse la prima. È necessaria una certa partecipazione, ma anche una certa alienazione».
La tua poetica è spesso pervasa di poesia, di un discorso poetico che scorre nelle vene di quello che mostri, anche di te che ti mostri. Che rapporto hai con la parola scritta e
letta?
«Credo che la poesia sia un’arma potentissima perché è l’unica forma di resistenza che si può opporre e coltivare contro la pervasività della realtà, qualunque aspetto essa incarni… A dispetto di
quanto si possa pensare, non c'è resistenza al potere che non passi per una resistenza interiore. Lasciare uno spazio per il tentativo sempre fallimentare e sempre ricercato del dire l'ineffabile
è tutto ciò che abbiamo per non cedere alla tentazione di contrattare tutto, per salvare quello che Borges chiamerebbe “il centro del cuore che non consiste in parole, non si baratta coi sogni e
che tempo, gioia, avversità lasciano intatto”».
Ha uno sguardo indagatore e curioso, e impone subito un cambio di ruoli prima dell'intervista: prende di contropiede e chiede «l’arte è per lei dovere?».
Valerio Adami è il pittore più pop della sua generazione: nato nel '35, ha attraversato la recente storia dell’arte, imprimendo un segno con un timbro inconfondibile, netto,
resistente alla catalogazione in corrente o a un gruppo. In mostra al Mar di Ravenna (fino all'8 dicembre) è possibile vedere una sintetica presentazione di un processo artistico che abbraccia
con dedizione un arco di tempo che va dalla fine degli '50 ad oggi. Un paesaggio figurativo rigoroso, sobrio, puntuale e intenso, come lo sguardo di questo artista che ancora ha molti progetti
nel cassetto del futuro. Grande viaggiatore, stimolato alla curiosità per gli spazi altri soprattutto dalla moglie Camilla, anch’ella pittrice di talento, vive soprattutto a Parigi, città che per
prima gli ha dedicato un’ampia personale pubblica.
La sua è una biografia di un artista affermato e che è riuscito già in gioventù ad ottenere riconoscimenti ed attenzione. È replicabile una simile biografia oggi?
«All’epoca tutto era limitato a pochi attori. C’erano due gallerie a Milano e tre a Parigi. Oggi siamo di fronte a un paesaggio diverso, la stessa espressione artistica si ê differenziata. Ci
sono pittori che dipingono, ma ci sono molti che trovano forme espressive diverse dalla tradizione di questo linguaggio. Il possesso del pensiero dell’arte stesso si è ampliato. Ho come
l’impressione che ci sia più interesse, ma con minore intensità. Se un giovane ragazzo di buona famiglia comunica alla famiglia che vuole diventare artista, i genitori possono essere quasi
contenti. Quando ero giovane, l’iscrizione all'Accademia era un atto riprovevole».
Dietro l'obiettivo di Laura Liverani di Elettra Stamboulis
L'intervista allo scrittore passato da Feltrinelli di Elettra Stamboulis
La collaborazione tra l’artista amato
dal jet set americano e i mosaicisti ravennati di Elettra Stamboulis
Ha esposto al Maxxi, Istanbul, New York, Londra
«Per diventare artista serve una vocazione a una religione laica» di Elettra Stamboulis
La fotografia come forma terapeutica e i viaggi fino in Taiwan di Nastynasty di Elettra Stamboulis
L'illustratrice bolognese in mostra a Ravenna di Elettra Stamboulis
Avrebbe voluto far la maestra, Marina Girardi: questo ha raccontato agli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Ravenna venerdì 12 aprile. E certo, la sua frizzante esperienza di didattica
attoriale – laboratoriale del disegno un po’ lascia intravedere l’anima pedagogica e accogliente dell’artista bellunese trapiantata a Bologna.