"Dovranno chiamarci per disincagliarlo dalla vasca da bagno, sempre che sappia come si usa..."
"O, cosa dite?"
"Non ci sarebbe nulla di strano. è romagnolo, in fondo. Gente rozza" (Marco Malvaldi, Odore di chiuso, p. 15 un personaggio parlando di Pellegrino Artusi.
La nomea della gente di Romagna era, e gli stereotipi sono duri a morire, quella di gente rozza, grezza, sanguigna. Accoltellatori, personaggi ringhiosi, attaccabrighe. Eppure, la mappa dei luoghi nascosti disvela una rete fitta e curiosa di case di poeti, musei preziosi, percorsi museali all'avanguardia. Questi articoli, pubblicati tutti per una rivista locale, vogliono essere una geografia alternativa alla Romagna del luogo comune.
Una parte della memoria del mondo è custodita dalla biblioteca Malatestiana di Cesena. L'Unesco l'ha certificato nel 2005, ma gli studiosi, i bibliofili, gli amanti dell'Umanesimo già lo sapevano. Fondata nel 1452 da Domenico Malatesta,detto Novello, ha veramente non solo la consistenza, ma anche la struttura del tempio della cultura. L'allora signore di Cesena, che aveva come simbolo della casata un elefante – che già Plinio il vecchio considerava l'animale più vicino all'uomo, quello che tra le varie qualità ha la memoria – diede l'incarico ad un discepolo di Leon Battista Alberti di realizzare l'edificio che ha avuto la meravigliosa e insperata sorte di attraversare i secoli sostanzialmente inalterato.
Non avere figli può essere un bene per la comunità: questo può essere l’epilogo ricavabile dal testamento di Alessandro Gambalunga, il quasi nobile che donò la propria dimora e il proprio materiale librario alla città di Rimini nel 1617, permettendo così l’apertura di una delle prime biblioteche pubbliche e laiche dell’Europa controriformistica. Fu quindi in una delle città della periferia, che tale era Rimini all’inizio del XVII secolo, parte da poco della periferica Legazione pontificia di Ravenna. Qui nacque questa biblioteca civica che, dopo 400 anni, vede ogni giorno circa 500 persone al giorno entrare ed uscire dalle sue porte per leggere, vedere, ascoltare. Gambalunga era un arrivé, il figlio di un commerciante di ferro che si era arricchito grazie alle doti delle quattro mogli e che grazie a questo patrimonio aveva comprato il titolo nobiliare: non gli era bastato per essere ammesso nel cerchio dorato del Consiglio dei Cento, anche se aveva sposato una Diotallevi, ovvero una erede di casata pluristemmata. Ma si sa, non basta la fede per rifarsi il pedigree, in particolare nella piccola provincia che tutto ricorda.
Siamo tutti pronipoti di Mosè. E forse più che delle differenze, sarebbe il caso di tornare a parlare di analogie, luoghi e valori comuni, percorsi fatti insieme.
Il Museo interreligioso di Bertinoro ci invita nel suo nuovo allestimento, rivisitato nel 2015 al cui centro c'è l'esperienza del monoteismo, a riflettere su ciò che ci unisce, piuttosto che su quello che divide. Il monoteismo inteso nelle sue tre espressioni: l'ebraismo, il capostipite, il cristianesimo,ovvero il figlio che vuole essere padre e che si emancipa, ma senza un interesse alle sue numerose accezioni, l'islam, come nipote tardivo, ma non per questo meno vicino. Il termine interreligioso è proprio la chiave di volta di questo particolare luogo, ospitato nella cisterna del '500 e nelle segrete medioevali della Rocca non lontana da Cesena. Un luogo inusuale: non è un museo di Storia delle religioni, non è neanche un museo che nasce da una collezione di oggetti sacri, da una esperienza in qualche modo della tradizione. È invece una scommessa innanzitutto del mondo accademico. L'idea nacque nel 1995 da un accordo tra atenei: Bologna, Thessaloniki, Tunisi, Ankara, Heidelberg, Gerusalemme, la Pontificia Università Gregoriana e l’Università Pontificia Antonianum. Era l'epoca, che sembra ormai lontana, in cui uno dei leit motiv era ricreare un asse del Mediterraneo, favorire il dialogo e la collaborazione sul bacino del Mar Bianco, come viene chiamato dagli arabi e dai turchi. Ovviamente ci fu anche un sostegno politico importante, in particolare del senatore dell DC Leonardo Melandri, a cui ora il Museo dedica un premio. Poi ci furono i tempi per fare maturare idea, luogo, progetto, e nel 2004 aprì i battenti. Ora, in tempi sicuramente cambiati per la percezione della questione della fede, tempi in cui convivono due Papi, per dire, questo luogo è sicuramente cruciale come contesto di riflessione, come accesso alle questioni nodali. Quesiti e risposte che si incrociano e che allo stesso tempo dividono, ahimè, gli uomini e le donne di fedi diverse.
"Mi posi all’opera più fiducioso che mai, convinto che questo terrificante fenomeno doveva pur avere la sua legge...”, così scriveva il faentino Raffaele Bendandi (1893-1979) ), che non credeva nel caso, in particolare quando si trattava di terremoti. Nato in una famiglia umile, studiò per poco, dovendo per forza andare a lavorare. Ma non abbandonò mai la curiosità e fu sicuramente uno dei più misteriosi scienziati autodidatti della nostra terra.
Il lavoro di orologiaio e poi intagliatore, i suoi studi forsennati, lo portarono a costruire un sismografo e altri strumenti. Come molti, fu particolarmente colpito dal terremoto di Messina e divenne un suo cruccio trovare il modo di prevedere i sismi. Dal punto di vista scientifico le sue teorie non sono state comprovate e accolte dalla comunità scientifica, tuttavia il suo lavoro ha sempre una forte aura di fascino. La sua idea era che i sismi fossero provocati dalle influenze degli altri pianet, tuttavia questo approccio, anche se ancora discusso e ogni tanto riproposto, non è al momento tra quelli considerabili scientificamente provati.
Nel 1968, nel pieno delle rivolte studentesche, anche lui fa una piccola rivoluzione: scopre un nuovo pianeta e lo chiama “Faenza”. Anche in questo caso la sua teoria non viene accettata, ma va ricordato che la presenza di un pianeta in quella zona del nostro universo non è nuova ed è tornata in auge a seguito delle dichiarazioni sulla presunta esistenza del nono pianeta da parte di due ricercatori californiani recentemente. La damnatio memoriae, dopo un'iniziale innamoramento, da parte di Mussolini lo rendono ancor più avvolto di mistero, visto che il suo sistema di previsione e i suoi studi non sono completamente documentati.
La visita alla casa memoria comprende non solo l'approfondimento degli elementi scientifici legati alla sua opera (il planetario permanente e il sismografo), ma è anche l'occasione di visitare una tipica casa a schiera faentina di fine ottocento. Si tratta di uno spazio gestito e curato da ricercatori e appassionati locali, che quindi è animato da vero amore per la scienza, un bell'esempio di cultura partecipata insomma, che tutte le scuole possono fruire su appuntamento, i visitatori invece tutti i primi mercoledì del mese.
Cosa succede se una pedagogista – paesaggista, Roberta Magnani, e un musicista compositore polistrumentista, Dario Giovannini, si mettono in testa di ridare vita ad una Rocca storica? Accade a Cesena, dove dal 2012 l'associazione Aidoru gestisce questo spazio: il risultato è che dalle 22.000 presenza annue sono passati a 90.000. Come sia successo l'abbiamo chiesto proprio a Roberta.
- Come siete arrivati in tre anni di gestione a moltiplicare le presenze come i pani e i pesci?
- Diciamo che è stato un po' il cuore del nostro progetto. Volevamo utilizzare il luogo per moltiplicare l'offerta. Prima c'era un'associazione che sostanzialmente gestiva le visite guidate. Che c'erano, ma ovviamente erano indirizzate a chi già era interessato all'aspetto storico artistico della Rocca. Noi abbiamo ampliato lo spettro, presentando un progetto al Comune indirizzato ai turisti, ai giovani, alle famiglie, alle scuole. Questo spazio, che è composto da un parco di quattro ettari e dalla storica Rocca, è diventato così uno spazio in cui si può ancora fare la visita diciamo ordinaria, ma a questa si aggiunge la visita Lumen Malatesta che è un percorso performativo e narrativo a lume di lanterna con degustazione, particolarmente indicato per le famiglie. Sempre per un pubblico di più giovani ci sono poi i laboratori dal grano alla piadina o Cappuccetto Rosso o l'attraversare il bosco dei segreti. Si tratta di un percorso performativo attraverso gli spazi, inseguendo la fiaba...L'idea è di fare un'esperienza, non solo vedere ed ascoltare. La strategia sta funzionando: ogni domenica i 40 o 50 posti a seconda della proposta sono sempre esauriti. Non c'è stato bisogno neanche della pubblicità, è successo tutto quasi naturalmente.
Ma Romagna vuol dire letteratura? Cosa si scrive e si è scritto nella terra della piadina e degli ombrelloni in serie? Partiamo con questo viaggio attraverso le case museo dedicate agli scrittori e poeti di questo lembo di terra, dicendo innanzitutto che nulla ha da invidiare alla densità poetica di luoghi in cui su questo si è costruita una tradizione turistica.
Se negli ultimi decenni l'immagine della Romagna si è dapprima identificata con I vitelloni e Amarcord di Fellini, un luogo da cui si parte per uscire dalla provincia o un luogo in cui nostalgia, stupore e baionetta si uniscono in un unico corpo, per poi divenire la terra di conquista delle discoteche e dei parchi di divertimento, in questo inizio millennio si potrebbe cominciare una riconversione “ecologica” a terra di scrittori e poeti. E forse non è un caso che proprio Amarcord, ambientato negli anni '30 della memoria del regista riminese, sia stato sceneggiato insieme a Tonino Guerra, una delle grandi voci poetiche di questa terra, fertile non solo per prodotti agricoli.
Può essere quindi straniante, ma anche evocativo, visitare la Romagna partendo dalle case museo dei suoi cantori, particolarmente concentrate tra Cesena e Rimini. Esse costituiscono un'altra geografia, quella delle parole che intessono la nostra percezione del luogo. Sono insomma una geografia sentimentale, che in realtà prevale su quella prettamente fisica.
Silvia Pasolini accanto a una signora che suona il pianoforte
Fotografia albumina. Sullo sfondo un ritratto di Giosue, forse un dipinto, tratto dalla foto scattata nel 1903 che ritrae il poeta in vestaglia nel suo studio.
Cos'è che rende Parigi inconfondibile? Non certo la lingua, o la dimensione, o lo smog... sono quei piccoli particolari, resi unici dal lavoro delle mani di piccoli artigiani, artisti ignoti e amanti del lavoro ben fatto, che hanno creato l'immagine condivisa di questa città. Insieme ovviamente all'assenzio e ai balletti russi... Contano di più le passeggiate sotto i lampioni in ghisa che le pacchiane discese di un parco divertimenti. E lo sanno persino i creatori dei film d'animazione.
Naviga, non affonda (Fluctuat, nec mergituri) è nello stemma della capitale francese e di certo i particolari di ghisa che affollano molte strade, piazze, angoli non sono portati al naufragio. Anche se oggi l'architettura e l'arredo urbano sembrano essere lontani dal lavoro tipico della fonderia, ancora ne ammiriamo il romanticismo e la cura del dettaglio. È però l'ornato classico, la nascita e la diffusione delle scoperte dell'archeologia che cambiano il gusto a metà ottocento e portano le maggiori città europee a gareggiare nelle forme con l'antico, imitandone decorazioni, ma con un occhio alle tecnologie che nel frattempo si erano evolute. Insieme alla diffusione dell'illuminazione pubblica, la ghisa occuperà le strade per concedere alla notte di essere abitata. Nascerà così la vita notturna, sconosciuta per millenni agli essere umani.
Si può cominciare ad essere scienziati a 14 anni. Questo ci insegna la vicenda di Alfredo Brandolini, l’ornitologo che creò la raccolta del “Palazzone” oggi Museo Natura di S. Alberto, a pochi
chilometri da Ravenna.
Nel 1906 il giovane rampollo della famiglia nobile era un ragazzino affascinato dalla caccia, che praticava però con scrupolosa curiosità classificatoria e con un’attenzione empatica alla preda,
come si desume dai suoi diari dell’epoca. E proprio il pettirosso ucciso da questo adolescente avviò la collezione tassidermica che ora è ospitata nel paese sull’orlo delle Valli. Vivere nella
natura, che tra i due secoli era più che selvaggia, fu l’esperienza che segnò il destino del laureato in Agraria e appassionato ornitologo Alfredo: pur viaggiando per tutto lo stivale, visitò
anche per tre anni l’Eritrea, non dimenticò mai le sue origini. Una caratteristica tipicamente romagnola: così la sua inestimabile collezione di uccelli costituisce oggi il fulcro di questo
museo, dove i ragazzini curiosi possono scoprire lo scienziato classificatore che è in loro, meravigliarsi di fronte alle farfalle diurne italiane (tutte le specie!) e molte notturne, le farfalle
esotiche e gli invertebrati tipici di tutto il mondo, i cerambicidi delle pinete ravennati, i mammiferi che presentano fra gli altri rarissimi esemplari asiatici, i mammiferi del ravennate, i
rettili, le conchiglie dell'Adriatico, le conchiglie di acqua dolce della Romagna, le conchiglie di terra della Romagna… Ritrovare come Sherlock Holmes la capacità di differenziare, osservare con
lentezza, scoprire e distinguere le diversità nell’apparente omogeneità delle specie, costituisce, in particolare nell’età della preadolescenza e dell’adolescenza, un presupposto fondamentale per
lo sviluppo di un approccio scientifico al sapere. È in quella età in cui si suddividono le figurine, le macchinine per colori, i vestitini per tipologie, in cui si comincia insomma a
classificare nella specie, che musei come questi possono fare la differenza. E il museo Natura è proprio un luogo magico, anche per il suo involucro, che era originariamente un “Palazzone”
utilizzato come ostello e come luogo di scambio, dove insomma dal ‘500 ci si incrociava e ci si scambiava esperienze. Gestito dal 2003 dalla cooperativa Atlantide, ospita moltissime attività
durante l’anno: fino al 9 ottobre si può visitare ad esempio la mostra temporanea dal titolo “Animalerie” di Vania Bellosi, storica illustratrice della casa editrice faentina Moby Dick e per anni
illustratrice anche di quell’oggetto presente in molte delle nostre case , il “Lunêri di Smembar”.
Serenate delle zanzare: cosa dire di più realistico e ironico al contempo dell'estate romagnola? Ed è così che si intitola la rassegna estiva che si tiene ormai da cinque anni nella corte della
casa museo Marino Moretti a Cesenatico. Sembra sentire il dolce, ehm, fastidioso verso dell'insetto più molesto della nostra sabbiosa costa, eppure nell'ambiente ovattato e fedelmente protetto
della Casa museo sul canale leonardesco anche la zanzara sembra acquietarsi, essere meno molesta, addolcirsi in questo luogo che conserva le carte e gli oggetti del poeta e romanziere che disse
“Io non ho nulla da dire...” per poi cesellare parole e versi per diversi decenni.
Nato nel 1885, attraverso i primi 79 anni del secolo breve e fu un esempio di romagnolo inadempiente alle mode, discolo e non officiale. Figlio di una maestra, ovvero della prima classe colta
femminile, fu uno scolaro irrequieto, che decise di abbandonare gli studi per seguire la scuola di recitazione di Luigi Rasi a Firenze, abbandonando poi anche quella. Non si era peraltro
diplomato al ginnasio, e anche come attore risultò scadente: non lo era però nell'uso del lapis, che diventò la sua spada. Una spada che usò anche per firmare il manifesto degli intellettuali
antifascisti di Croce.
« Alta è la notte, ed in profonda calma
dorme il mondo sepolto,
...Io balzo fuori dalle piume, e guardo;
e traverso alle nubi, che del vento
squarcia e sospinge l'iracondo soffio,
veggo del ciel per gl'interrotti campi
qua e là deserte scintillar le stelle.
Oh vaghe stelle!... »
(Vincenzo Monti, Pensieri d'amore,
VIII, 124-132)
Se volete fare un viaggio sinestetico e poetico, allora casa Pascoli a San Mauro è il luogo che fa per voi. Non è semplicemente una casa museo, peraltro parziale, visto che il poeta romagnolo
visse solo i primi anni dell’infanzia in questo edificio dove nacque il 31 dicembre del 1855. Il casone, diventato opera nazionale nel 1924 (eh sì, i fascisti amavano i poeti nazionali…), oggi
permette di vedere ricostruito anche lo studiolo universitario del famoso letterato che ottenne la cattedra di Carducci di Letteratura Italiana, ma soprattutto permette di fare esperienze
pascoliane. L’impegno dell’amministrazione del Comune, dovuto in particolare al decennio del sindaco – poeta Gianfranco Miro Gori, ha reso Casa Pascoli parte di un Parco poesia che comprende
anche La Torre (ovvero Villa Torlonia), il mausoleo della famiglia Pascoli (ma Giovannino è sepolto insieme alla sorella Mariù a Barga di Lucca… d’altro canto noi ci siamo tenuti Dante), la
cappella della Madonna dell’Acqua, ma soprattutto una vasta e articolata attività di promozione, fruizione, esperienza della poesia. Ma andiamo con ordine.
La Romagna è una fitta mappa di straordinari piccoli musei e fondazioni e ciascuno di essi ha una storia che vale la pena di essere raccontata.
Se c'è un museo che ci misura sui grandi quesiti del presente, questo è il Museo degli Sguardi di Covignano, una frazione di Rimini. Il nuovo percorso museale è stato inaugurato nel 2005 ed è stato curato da un comitato alla cui guida c'era Marc Augè. L'antropologo teorico dei nonluoghi ha sicuramente impresso una direzione innovativa e, se vogliamo, leggermente profetica a questo museo che nasce dalle donazioni di diversi collezionisti. Innanzitutto il nobile veneziano Delfino Dinz Rialto, che fondò nel 1972 nel Palazzo dell'Arengo e del Podestà, il “Museo delle Arti Primitive - Raccolta Delfino Dinz Rialto” ispirandosi al “Museum of Primitive Art” di New York fondato nel 1957 da Nelson Rockfeller. A questa prezioso lascito si aggiunsero 514 pezzi donati da Ugo Canepa, un collezionista biellese che aveva ancora tra le mani la collezione privata più importante di materiale precolombiano in Europa posseduta da un privato ,e che arrivò allo scorcio dell'inaugurazione dopo un percorso ad ostacoli durato circa un decennio. A queste si aggiunse il nucleo dei Frati Francescani missionari delle Grazie, che operano ancora ad Aitape, in Papua Nuova Guinea e una collezione di pezzi dell'Amazonia regalata dal cesenate Bruno Fusconi. Ma se da soli gli oggetti antropologici ed etnografici possono comunicare un senso di galleria delle meraviglie dell'ottocento, l'allestimento e il taglio museografico di Rimini ci portano nel cuore tenebroso dell'Europa, ovvero il nostro sguardo sull'altro. Ed è per questo che lo sforzo per il visitatore è scoprire il proprio sguardo o i nostri plurimi sguardi sull'altro: a questo invitano ad esempio le vetrine opache che sfumano i contorni degli oggetti esposti. Esse ci interrogano su cosa veramente è e cosa riusciamo a vedere della cultura dell'altro. Un nodo questo che attraversa ormai qualsiasi tema all'ordine del giorno dell'opinione pubblica: anche quando l'altro è il nostro vicino di casa spesso il nostro sguardo ha una vetrina opaca che non permette una visione non conflittuale della nostra relazione. Questo museo etnografico ci pone davanti quindi all'antico indovinello di Edipo, dando però un altro esito al grifo della sfinge: ogni essere umano ha caratteristiche comuni, ma allo stesso tempo è qualcosa di ignoto, se non addirittura segreto. E anche se oggi viaggiamo molto più di ieri, quello che incontriamo ha spesso il sapore dell'identico a noi, perché il nostro sguardo fatica a togliersi lo strabismo del monopolio culturale. È qualcosa di naturale, ma su cui serve riflettere e sperimentare. Così il museo riminese ci permette un viaggio ampio nel tempo e nello spazio, dall'Oceania all'Asia, dall'Africa alle Americhe, con pochi chilometri di benzina.